14 Dicembre, 2024
Le leggi razziali del 1938 e la Shoah

Le leggi razziali del 1938 e la Shoah

Quello dell’olocausto è un tema assai delicato, tocca argomenti e questioni che sono tutt’altro che semplici da trattare. Ieri si è voluto ricordare quanto accaduto settantasette anni fa, oggi ci si propone di terminare il discorso già iniziato e indurre il lettore a riflettere.

È infatti con la comprensione, il ragionamento e la riflessione che è possibile elevarsi e contribuire allo sviluppo spirituale della nostra società.

Si vuol partire da un presupposto: con la nascita del costituzionalismo moderno e quindi con l’avvento delle società di democrazia pluralista si è persa quella tendenza universale al concetto di “bene” inteso in senso oggettivo.

Il concetto di “bene” è infatti adesso plurimo, ma se è vero che ognuno concepisce il “bene” in maniera differente, come è stato possibile mettere d’accordo un popolo su di uno stesso argomento?

Come è stato possibile varare le Costituzioni nazionali?

La soluzione rousseauiana per cui la risposta sarebbe da riscoprire nella maggioranza nemmeno può reggere, perché tanto ciò poteva essere vero fintanto la società era monoclasse, ma in una società pluralista non è possibile autorizzare una dittatura della maggioranza, ancor meno in fase di approvazione di una Carta fondamentale contenente diritti che diverranno inviolabili.

È quindi forse da ritrovare proprio tra gli orrori della seconda guerra mondiale quella volontà necessaria di arginare il “male” che ha permesso il costituzionalismo contemporaneo.

Si pensi alla Costituzione italiana, approvata dopo il periodo fascista; alla Legge Fondamentale tedesca, varata pochi anni dopo la seconda guerra mondiale e contenente al suo interno, al primo articolo, una disposizione che dà priorità alla dignità umana su qualunque altro diritto dell’uomo; o, passando a livelli di ordine sovranazionale, alla D.U.D.U., ossia la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani approvata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite (ONU): «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti».

È quindi indubitabile, come già ripreso più volte in questi giorni, che l’olocausto sia stato un evento di rilevanza tale da scuotere l’intera umanità.

In effetti, come smentire un’affermazione del genere, come altrimenti si potrebbe ponderare un progetto politico con l’obiettivo di epurare il mondo? Con l’obiettivo di trucidare interi popoli per la sopravvivenza del solo popolo “ariano”?

Il concetto su cui oggi ci si soffermerà precipuamente è strettamente legato all’evoluzione storica di quel processo che ha poi portato allo sterminio del popolo ebraico, che, si premette, non è stato di certo realizzato grazie ai (soli) nazisti.

È storicamente provato, difatti, che i lager inizialmente non erano per niente dissimili dai gulag sovietici, i primi, infatti, come i secondi, erano “campi di lavoro” con lo scopo di confinare e rieducare, ovvero di reprimere gli oppositori politici.

L’odio sociale e l’antisemitismo sono quindi aspetti intervenuti successivamente: evidenze storiche comprovano che i soldati dell’esercito tedesco (e il riferimento non è alle SS) potevano sempre rifiutarsi di uccidere civili, ebrei, senza incorrere in alcuna sanzione, ma ciò tuttavia le stragi sul campo vi furono proprio per causa di questi soldati “semplici”: persone comuni travolte dall’impeto della guerra e quindi incitate implicitamente ad uccidere senza un reale motivo.

Come si può condizionare un uomo al punto da indurgli ad uccidere un altro uomo, uccidere donne e bambini senza un “giusto” motivo (come se esistesse poi – noi lo neghiamo – una motivazione che dia “giustizia” all’omicidio)?

Ognuno potrà cercare di rispondere nella maniera più opportuna: noi crediamo che la risposta sia tutta nella società e nella socialità dell’uomo: il soldato tedesco trucidava donne e bambini perché sapeva che ciò andava fatto, lo faceva per non essere discriminato dai suoi simili; per il soldato tedesco dell’epoca essere diversi era un disvalore; essere uguali e essere i migliori, era quello il credo da rispettare, salvare la propria razza dalle impurità, depurare il mondo.

Propaganda. È così che un uomo si trasforma in un assassino: inizialmente esegue un ordine e di certo non prova gusto nel fare del male, poi la situazione inizia a diventargli indifferente e alla fine trova gusto e piacere nell’uccidere.

Il perché è un’incognita che lasciamo alla riflessione del lettore: la guerra comporta “uccidere le persone”, ma ciò non spiega che un uomo, un buon padre di famiglia, si trasformi in un sanguinario assassino.

Fino a che punto il “ruolo” determina e condiziona i comportamenti umani?

Sono questi gli effetti del totalitarismo sull’individuo. Il totalitarismo, differentemente da quelli che sono gli altri regimi autoritari e liberticidi, ha l’ambizioso obiettivo di “cambiare la natura umana”, di convertire gli uomini a “fasci di reazioni intercambiabili” – affermerebbe la Arendt.

Il totalitarismo tenta di eliminare il pluralismo, rendere l’uomo superfluo e rimpiazzabile, privandolo della usa identità, della sua personalità e della sua unicità: degradano l’agire umano ad un animalesco “reagire”, deprimendo così la libertà di tutti gli individui.

Che fine fa quindi la dignità umana?

Non c’è. Probabilmente tra i cancelli dei campi di sterminio questo termine era perfino tabù.

Di certo gli “ospiti” del campo erano stati spogliati della loro dignità già all’ingresso.

L’abbandono e l’umiliazione portò i più deboli a togliersi la vita nelle prime settimane di soggiorno, poi la denutrizione e i lavori forzati potarono via altri di loro e infine le “fabbriche della morte” li sterminarono tutti, giovani e vecchi, deboli e forti.

Dov’è la dignità degli individui? Donne costrette a tagliarsi i capelli per non mostrare la loro diversità, tutti vestiti allo stesso modo, tutti operanti nella stessa maniera e secondo le stesse logiche perverse del campo.

Tutti uguali, ognuno con la sua (im)personalità da mostrare, nessun nome, nessuna storia, nessun identità. È questo un uomo?